"Spes sibi quisque" Virgilio #2
"Spes sibi quisque" Virgilio #2
La frase compare nel libro XI dell'Eneide di Virgilio, al verso 309. Il contesto è quello della battaglia decisiva tra Latini e Troiani, dopo la morte di Camilla. Enea esorta i suoi a non perdersi d'animo:
"Spes sibi quisque, sed haec quam angusta videtis."
"Ognuno sia speranza a se stesso, ma vedete quanto questa sia esigua."
Con l'espressione "spes sibi quisque" (letteralmente "speranza per sé ciascuno") il poeta sembra voler dire che, quando le circostanze esterne sono avverse e le speranze di salvezza ridotte al lumicino, l'unica àncora di speranza risiede dentro di noi, nelle nostre risorse interiori. È un invito a confidare in sé stessi, a contare sulle proprie forze nei momenti di difficoltà, senza aspettarsi aiuti esterni
Il senso della frase nel contesto è quello di un invito ai soldati troiani a fare affidamento solo sulle proprie forze, sulla propria virtus, dato che la situazione appare disperata. Virgilio riprende un topos frequente nell'epica e nell'elegia latina, quello dell'esortazione del comandante alle truppe.
Ma la frase assume anche un valore più universale, di esortazione a contare su di sé, sulle proprie capacità, senza aspettarsi aiuto esterno. In questo senso il motto virgiliano è stato spesso citato, fin dall'antichità, come espressione di un ideale di autonomia e di fiducia nelle proprie forze. Rappresenta una concezione della speranza che rimanda al locus of control interno più che esterno: la possibilità di cambiare le cose dipende da noi, dal nostro impegno, non da fattori incontrollabili.
Un precedente importante per Virgilio è un passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio (I, 335), in cui Giasone esorta similmente i compagni dicendo "ἐν γὰρ χερσὶν ἔχοντες κυνδυνους" ("nelle mani tenendo i pericoli"), cioè facendo affidamento solo su sé stessi.
La frase di Virgilio diventerà proverbiale e sarà citata spesso, talora anche in forma abbreviata come "spes sibi quisque". Compare ad esempio in Silio Italico (Punica X, 384) e Stazio (Tebaide XI, 155).
Nel Medioevo il motto compare in florilegi ed enciclopedie, come i Collectanea di Vincenzo di Beauvais (XIII sec.). Sarà poi ripreso in età umanistica da autori come Pontano e Poliziano.
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